In questo seminario Paolo Migone ripercorre la storia il dibattito psicoanalitico sui fattori curativi e sull’importanza data alla relazione terapeutica, a partire da Freud e dal Congresso di Marienbad del 1936, passando attraverso la svolta del Congresso di Edimburgo del 1961, per arrivare al dibattito recente.
Freud concepiva due fattori curativi fondamentali: la comprensione e l’attaccamento (per la verità ve ne era un terzo, l’integrazione, che qui non viene preso in esame). Per “comprensione” Freud intendeva i fattori cognitivi, cioè l’interpretazione, la comprensione intellettuale, la spiegazione, l’istruzione, l’educazione, l’argomentazione logica, etc., mentre per “attaccamento” (da non intendersi come “teoria dell’attaccamento” di John Bowlby, a quei tempi non ancora formulata) intendeva gli aspetti emotivi, affettivi, relazionali, esperienziali, suggestivi, etc. Migone evidenzia come, contrariamente a quanto in genere si creda, Freud desse molta importanza al ruolo della relazione, da lui ritenuta un potente agente terapeutico, e non solo all’interpretazione, considerata da molti come l’intervento della psicoanalisi par excellence. Migone mostra la concezione che aveva Freud nei dettagli riportando anche sue citazioni, ed evidenzia come in realtà egli concepisse la psicoanalisi come una pratica terapeutica “a tutto campo”, con aspetti umani, educativi, identificatori, etc., all’interno dei quali l’interpretazione del materiale inconscio rappresenta solo una parte del trattamento, e spesso neppure la più importante. La terapia quindi, potremmo dire, è Bildung, cioè è anche la costruzione di un soggetto, che “impara” dal terapeuta, il quale trasmette anche valori e funge da modello per lui, come lo stesso Freud ha più volte osservato (volendo parafrasare Freud quando citava Leonardo da Vinci, la psicoanalisi quindi non funziona solo per via di levare, ma anche per via di porre). L’autore cui Migone fa riferimento in questa ricostruzione storica del dibattito psicoanalitico sui fattori curativi è Larry Friedman, di New York, uno storico delle idee della psicoanalisi molto attento e colto, che è anche nella redazione della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (di cui Migone è condirettore), il quale ha esposto queste sue riflessioni in un articolo del 1978 incluso poi come capitolo 4 del suo libro del 1988, tradotto anche in italiano, Anatomia della psicoterapia (Torino: Bollati Boringhieri, 1993). Secondo Friedman, negli anni 1950-60 avvenne una svolta, culminata nel dibattito sui fattori curativi avvenuto al congresso dell’International Psychoanalytic Association (IPA) di Edimburgo del 1961, che modificò la concezione della psicoanalisi che aveva Freud, e la rese una tecnica molto rigida, “classica”, in cui l’analista doveva restare il più possibile anonimo, parlare poco, stare dietro al lettino per non farsi vedere dal paziente, e intervenire soprattutto tramite le interpretazioni. Come espresso da Migone, questo atteggiamento analitico rappresenta una sorta di “personectomia” dell’analista, cioè, per così dire, un’asportazione chirurgica della persona dell’analista dalla relazione col paziente. Questa tecnica, che alcuni chiamano freudiana, per la verità non fu mai praticata da Freud, il quale quindi in questo senso non è mai stato un “freudiano”. Ma come mai si arrivò a questo irrigidimento, che come sappiamo ritroviamo un po’ ancora nello stereotipo dello psicoanalista rappresentato a volte nei giornali e in certi film? Il fatto è, argomenta Friedman, che nel 1961 il panorama dello sviluppo delle psicoterapie era ben diverso da quello di 20-30 anni prima: la psicoanalisi non dominava più incontrastata il mercato della psicoterapia e il suo monopolio era stato rotto dall’assedio di un vasto movimento di psicoterapie diverse, molte delle quali non solo efficaci, ma anche più economiche, più brevi, e quindi più appetibili. Probabilmente vari esponenti dell’istituzione psicoanalitica si sentivano minacciati e avevano bisogno di differenziare al massimo la specificità del metodo psicoanalitico, e naturalmente solo l’interpretazione si prestava a servire come “concetto forte” atto a questo scopo. Le componenti identificatorie e affettive, legate alla relazione col terapeuta, rischiavano di rientrare nei cosiddetti fattori “aspecifici” o “comuni” presenti in quasi tutte le psicoterapie, sminuendo l’originalità della psicoanalisi. In questo seminario Migone discute anche altri aspetti collegati a questo problema, come l’identità medica della psicoanalisi americana (è soprattutto negli Stati Uniti che sono avvenuti tali sviluppi), la traduzione delle opere di Freud in inglese di James Strachey che secondo alcuni avrebbe modificato certi significati che aveva voluto dare l’autore (secondo Bruno Bettelheim, ad esempio, la psicoanalisi nell’attraversare l’oceano avrebbe “perso l’anima” e acquisito maggiormente un’identità medica), e così via. Per chi fosse interessato, una trattazione approfondita di questa tematica è nel capitolo 6 del libro di Paolo Migone Terapia psicoanalitica (FrancoAngeli, 1995, 2010).